martedì 10 marzo 2009

Vulnerabile

Il compito assegnatomi consisteva nel fare una passeggiata di almeno mezz'ora al parco. Lei sa quanto mi piaccia il contatto con la natura, e quanto nella mia ingolfatissima vita io tenda a trascurarlo in ragione di un milione di altri, più pressanti impegni.
Ma un compito è, ovviamente, qualcosa a cui obbedire. Anche se, come è capitato oggi, non sono riuscito ad uscire presto dal lavoro, e quindi mi ritrovo al parco dopo il tramonto, illuminato da una luna grassa e generosa, a muovermi un po' a memoria ed un po' indovinando i sentieri.
Ora, capita che io abbia una fobia.
Nella vita comune non mi turba molto, anche perchè sono poche le occasioni in cui mi viene davvero sbattuta in faccia. Ma c'è.
O meglio: c'è di nuovo. C'era quando ero piccolo, e tremavo davanti al compito quasi quotidiano di andare a prendere le bottiglie d'acqua in cantina, dove stavano più fresche.
C'era durante l'adolescenza, quando acceleravo di colpo i pedali per avvicinare il rientro a casa, la sera.
È poi sparita durante gli anni dell'università, come tante altre cose. E, con esse, è tornata di recente.
A dirla così, mi imbarazza un po'. Ho paura del buio.
Non di tutti i bui. Diciamo solo di quelli davvero spaventosi. Ed in particolare, ho paura di stare da solo, al buio. Le cose, ben visibili in piena luce attorno a me, sono una barriera e fermano almeno un po' i pensieri: la fiumana continua, martellante, di storie, eventi, facce, creature, versi, iniziazioni, cori, misteri, questa cosa che sta lì, sotto lo zerbino della coscienza, che continua a raccontarmi, ad attirarmi, ad ingannarmi e a cercare di portarmi via, questa alluvione si lascia, se non fermare, all'incirca moderare dal senso della vista. Mi guardo intorno, sento i limiti della realtà - li vedo, dannazione, sono lì - e tutto risulta almeno contenibile, almeno sopportabile.
Ma nel buio, ovviamente, avviene il cambiamento.
Il buio è un buco nella realtà, una porta di servizio lasciata aperta ed incustodita, è quello che non ti aspetti ma di cui contempli l'esistenza. Ed è mio, completamente intimo, profondamente viscerale: non ho mai avuto paura, in nessun buio, se c'era con me qualcun altro. Devo essere solo per farlo accadere.
Stasera, appunto, ero solo. Mentre scrivo queste parole, appena rientrato, rifocillato e nutrito, sento ancora alcune parti del corpo indolenzite. Altre formicolano. Il respiro mi sa di zucchero.
Ho avuto paura nel parco.
La paura è un difensore troppo zelante, nato per proteggerci, in un delirio di potenza finisce per essere lui stesso il pericolo da cui guardarsi. Si compone di molte fasi, che influenzano la mente ciascuna secondo il proprio gusto e inclinazione: l'inizio è razionale, perchè la paura meglio di un secco spaccarsi è piuttosto il lento sciogliersi del pensiero controllato, potrei tornare indietro, in fondo sono appena entrato, comunque rischio di farmi male, al diavolo mi prenderò la punizione, va bene, no, dai, proseguire.
C'è poi la fase sensoriale: occhi dilatati, orecchie tesissime, fiuto l'aria alla ricerca del pericolo imminente. È proprio di questo momento l'essere traditi dalle proprie stesse sensazioni: qualcosa di inatteso, che sia una forma, un suono od un tocco, ci fa sobbalzare. Nella penombra lunare sono inciampato in un rametto invisibile, spaventandomi, scalciando, accennando un passo di corsa e dominandomi per guardare indietro: rametto, ovviamente. Proseguire.
Comincia poi la fase allucinatoria: dove non arrivano i sensi, il cervello rabbocca. Le ombre in questo sono adattissime: si muovono, si deformano, si lasciano percepire meglio con la coda dell'occhio che in piena vista. Passo questa fase sereno, intravedendo la sagoma di un pavone che, flessuoso ed elegante, avanza col suo strascico racchiuso e ripiegato. Mi avvicino per guardare meglio e fare amicizia: era un tronco, fermo, scaglioso. Proseguire.
Il mio corpo, capendo che è una causa persa, abbandona ogni remora e comincia a tendersi, arricciarsi, si dinoccola e freme, mi riempio di crampi. Ma è un attimo, un attimo e passa, mi lascia anzi una sensazione di rilassatezza, quasi di pace post orgasmica, devono essere l'adrenalina mescolata alle endorfine, proseguire ancora, non manca molto.
Ed eccolo che arriva, l'ultimo passo, il più temuto: la fase della fantasia.
Immagino.

bestie zanne rospi cani
uccisori topi sangue verruche ferite
ferito ferale sorpreso slabrato smangiato spezzato mordere
morso attaccato fuggire fiato inerme incapace
inadatto vulnerabile
morto

Immagino.
Cosa ci posso fare. Come posso contrastare. Come faccio sempre, come al solito.
Fin da piccolo, mi sono sempre inventato i ricordi. Immagino un cane, che mi attacca. Mi invento di quella volta che affrontai e vinsi un lupo, armato di bastone. Ma qui bastoni non ne ho. Allora lo vinsi a mani nude, afferrandolo al volo mentre mi saltava al collo e spezzandogli la schiena contro lo spigolo di un muro. Ma saranno molti. E io li spaventerò, contrattaccherò quando non se lo aspettano, ucciderò il loro capo, a costo di essere ferito, e dimostrerò che sono forte. Ma non sopporti così tanto il dolore, sverrai, urlerai. Sì, urlerò, ed il dolore mi darà ancora più forza, lascerò andare ciò che ho dentro, diverrò sanguinario e terribile. E se saranno gufi? Gufi? Sì gufi, una marea, uno sciame, trenta, cinquanta, cento gufi, enormi, rapaci, che ti cercano con gli artigli, coi becchi, con la rabbia, per lacerarti, per mangiarti vivo. Se saranno gufi mi rifugerò sotto quell'albero, dove non possono volarmi addosso in picchiata, li stenderò, mulinerò la cintura come un ossesso, sono solo uccelli, sono deboli e fragili, ne ho già affrontati, vincerò.
E se sarà un mostro? Se sarà un mostro infinito, fortissimo, intelligente e crudele, se sarà un mostro innominabile e indescrivibile, inconoscibile ed inconosciuto se non per la sua sete di ucciderti, cosa farai, come lo contrasterai, come ti opporrai alla peggiore di tutte le creature, alla più temuta?
Non si può fare a gara con se stessi. Arrivo ad un albero caricato a gemme, appoggio la schiena e respiro forte, prendendomi quel po' di serenità che riesce a trasmettermi: mi sembra anche lui spaventato, non voglio prosciugarlo. Però è il momento di tornare indietro. Piano, misurando i passi, cercando di non trasformare il ritorno in fuga.

È straordinaria la rapidità con cui il reale si riprende ciò che aveva ceduto all'onirico. Diretto a casa passo davanti ad un bar ed esce un tizio trafelato scoppiando in faccia ad un altro: "inter merda!"

Penso alla difficoltà di comunicare. A quanto facilmente si nascondano le cose, ed a quanto in fondo non si possa mai conoscere l'altro. A quanto ciascuno si porti dietro il suo bagaglio, e mi consolo dicendo che il mio, che mi pare a volte così goffo e pesante, è alla fine esattamente identico a quello di tutti gli altri, che certo non si accorgono di me, ma neanche io di loro. Diciamo che è un pensiero che mi piace pensare, che un po' mi fa sorridere.

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